Solitamente non parlo di politica per una scelta ben precisa. Questo blog vuole essere un riferimento per il turista, al quale la politica interssa poco o niente. Tuttavia parlo del più popoloso paese del mondo arabo e avendo trovato un articolo che ritengo più bilanciato che fazioso, lo pubblico in quanto le elezioni egiziane avranno comunque un peso importantissimo anche sullo scacchiere internazionale. L’articolo è di Tiziana Barrucci, pubblicato su Europaquotidiano.it
Opposizione islamista a rischio estinzione. Il parlamento egiziano potrebbe riservare poche o nessuna poltrona ai Fratelli musulmani. È la drastica previsione di Daniela Pioppi, docente di storia dell’Egitto contemporaneo alla facoltà di studi orientali de La Sapienza di Roma, nonché ricercatrice associata all’Istituto Affari Internazionali (Iai). L’Egitto si prepara a un doppio round di voto. Quello del 28 novembre è un test per saggiare la forza dell’opposizione sul territorio, ma è anche «lo sfondo delle presidenziali dell’anno prossimo, quando si deciderà il successore del presidente Mubarak». Dato per certo che il regime, nonostante debolezze, deficit e affanni, mantiene saldamente le redini della nazione, i risultati del rinnovo del Maglis el Shaab (il parlamento egiziano, appunto) sanciranno i nuovi equilibri e soprattutto il costo del potere per il partito del presidente. Cosa accadrà alla civiltà dei faraoni quando il faraone contemporaneo non ci sarà più?, si domandano oramai da tempo egiziani e non. Le risposte sono ancora tante. Mubarak potrebbe lasciare il potere nelle mani del figlio, il delfino Gamal, assicurandosi il perpetuarsi della dinastia. Potrebbe ammalarsi, qualcuno dice che già lo sia, sparendo di colpo: un uomo del regime, magari neanche troppo noto, prenderebbe il suo posto ad interim, salvo consolidarsi in poco tempo e diventare il nuovo raìs. Come del resto lo stesso Mubarak e il predecessore Sadat hanno fatto al loro tempo. «Oppure il faraone potrebbe essere immortale», scherza Pioppi. Come che sia, un po’ di quello che avverrà lo capiremo già nella tornata elettorale di fine mese.
Target islamista
Esperta di mondo arabo, Daniela Pioppi è in questi giorni alle prese con la scrittura di un libro sui Fratelli musulmani che uscirà a breve per Carocci. Nella sua analisi le chiediamo di partire proprio dalla madre di tutte le organizzazioni islamiste per delineare il quadro degli attori in campo nel voto di novembre. Dopo il successo politico del 2005, quando riuscì a strappare ben 88 seggi in parlamento, la Fratellanza è diventata via via il target preferito da Mubarak e i suoi. Unica vera opposizione politica del paese, da quasi sempre illegale ma tollerata, è stata negli ultimi anni fortemente bastonata dal regime. Che «ha decimato le sue fila mettendo fuori gioco non solo i leader carismatici e i quadri organizzativi, ma anche importanti finanziatori, nonché congelando fondi che rappresentavano la linfa economica dell’organizzazione», spiega Pioppi. Un progetto quello del raìs che ha fatto centro: «Stretta nell’angolo, coperta da scandali che ne hanno messo in dubbio l’integrità morale – caratteristica distintiva rispetto a un regime corrotto – la Fratellanza rischia oggi di uscire dal parlamento, se come è probabile non riuscirà ad ottenere neanche un seggio alle prossime elezioni». Del resto i segnali ci sono tutti: sia alle elezioni municipali del 2008 che a quelle di giugno scorso per la Shura (camera alta del parlamento) l’organizzazione non è riuscita a piazzare nessuno. Sembrano così lontani quei giorni in cui si discuteva dell’eventualità di un Egitto islamico, magari alla turca. Un’eventualità che non ha mai convinto però Pioppi: «Non ho mai creduto che la Fratellanza avrebbe potuto prendere in mano il potere – sottolinea – che è stato sempre saldamente in mano al regime».
Però la Fratellanza musulmana non molla e alle elezioni ci deve pur credere visto che fino ad ora non ha fatto suo l’appello delle altre forze di opposizione al boicottaggio. In prima fila contro il voto due organizzazioni di carattere sociale: l’emergente Associazione nazionale per il cambiamento e il Movimento per il cambiamento, noto da tempo per il suo slogan ad effetto Kefaya (Basta!). La prima fondata dall’ex capo dell’agenzia Onu per il nucleare (Aiea) Mohammed El Baradei, tornato a febbraio nel suo paese di origine, la seconda nata nel 2004 con le sue prime proteste di piazza anti Mubarak. Diverso invece l’approccio dell’opposizione integrata nel sistema politico, rappresentata dal partito di sinistra Tagammu e dal liberale Wafd, che alle parlamentari ci vanno e ci credono molto.
L’opposizione laica
Sfruttando la notorietà venutagli dall’Aiea, el Baradei sta organizzando un nuovo movimento ispirato al sempre più diffuso malcontento popolare. Vuole rinvigorire l’opposizione confluita attorno a Kefaya, struttura elitaria che dopo una stagione di successo nel 2005 si trova oggi ben lontana dalle sue aspirazioni di massa, divisa come è al suo interno con forti problemi di leadership e una frustrazione latente per non essere riuscita a cambiare la realtà politica del paese.
Il premio Nobel per la pace del 2005 si dice da subito pronto a sfidare il regime. «Le spinte al cambiamento devono venire dall’interno del paese, non c’è nessuno che verrà sopra a un cavallo bianco e lo farà per voi», avverte appena rimesso piede in Egitto. Poco dopo fa addirittura aleggiare la possibilità di una sua candidatura alle presidenziali a condizione però di riuscire a modificare il terreno presente. Come? Attraverso riforme costituzionali per una democratizzazione del paese. La sua richiesta velleitaria è un manifesto di sette punti che vuole raccogliere un milione di firme. Ma resta presto isolato. Il Tagammu non lo aiuta e neanche il Wafd lo appoggia.
Entrambe lo vorrebbero nelle loro fila, ma lui rifiuta. I due partiti non possono e non vogliono esporsi di più. Unici a sostenerlo, i Fratelli musulmani. Con i loro tanti problemi, però. A settembre diventa chiaro che nessun passo verso giuste elezioni sarà mai compiuto dal regime, ed el Baradei decide per il boicottaggio.
A mantenere la bandiera dell’opposizione, seppure di quella silenziosa e fedele al regime, ci sarà il Wafd. Partito della borghesia egiziana, ha rischiato l’estinzione nel 2005 quando di fronte a una fratellanza vittoriosa toccò il minimo storico (2 per cento). Oggi però gode dell’aria politica nuova e complice un accordo di scambio con il Partito Nazionale Democratico del presidente (Pnd) «potrebbe tornare a splendere nelle fila dell’opposizione parlamentare », come prevede Pioppi.
Il grande interrogativo delle elezioni resta quindi la qualità della performance del Pnd. Da questa si potrà infatti capire, secondo la nostra esperta, «a quale costo il regime imporrà il futuro presidente della repubblica araba d’Egitto». Le elezioni del 2005 non furono un successo. Il Pnd mostrò tutta la sua debolezza, non solo davanti ai Fratelli musulmani: con un 75 per cento ridotto al 33 per il computo degli indipendenti, ebbe il risultato peggiore della sua storia, diventando vero ostaggio dei signorotti locali. Perché sono proprio questi, i cosiddetti candidati indipendenti, la vera spada di Damocle sulla testa del Pnd. Gli uomini del Partito Nazionale (oggi spesso notabili, imprenditori o proprietari terrieri locali) per candidarsi nelle liste dell’organizzazione devono ottenere l’approvazione interna. La prassi vuole che però non tutti coloro che si presentano la ricevano ma molti, mancato il famigerato sì dall’alto, decidono di candidarsi come “indipendenti sui principi del Pnd”.
La posta a questo punto diventa altissima: se eletti, ottengono un potere di scambio forte rispetto al partito che li aveva inizialmente rifiutati. Il costo per rientrare in quelle fila è – neanche a dirlo – fatto a suon di appalti, concessioni e servizi pubblici. Un prezzo alto che il regime, visti i risultati catastrofici del 2005, non vuole più rischiare di dover pagare. Tanto più che nel 2011 in gioco ci sarà la presidenza delle repubblica. Per levarsi d’impiccio si ingegna quindi. E il trucco per sbarazzarsi degli indipendenti è subito trovato. Una piccola, ridicola modifica elettorale che nel burocratico Egitto diventa però geniale. I candidati che si presenteranno per ottenere l’approvazione del partito dovranno come al solito portare un certificato penale. Questo però stavolta – ed è la novità – verrà consegnato loro in unica copia. Scartati dalle fila del Pnd, non avranno il tempo di ottenerne un altro, e dovranno rinunciare definitivamente a candidarsi.
Ma non finisce qui. Scongiurato il pericolo indipendenti, il Pnd escogita anche un nuovo stratagemma per ingrossare le proprie fila. E a qualche settimana dal voto introduce per la prima volta le quote rosa in parlamento. Se da un lato la trovata rappresenta il fiore all’occhiello della signora Mubarak e del suo perpetuo tentativo di accreditarsi come paladina dei diritti dei bambini e delle donne, dall’altro la novità rappresenta per il partito del faraone la carta vincente di queste elezioni. I sessantaquattro nuovi seggi occupati da donne (da aggiungere agli attuali 454), non solo faranno balzare la percentuale di deputate in parlamento al 12 per cento (contro il vecchio 1,8), ma permetteranno senza dubbio di schizzare alle stelle la percentuale di eletti della maggioranza: «in un paese in cui la politica è a esclusivo appannaggio maschile, nessun’altra organizzazione avrà l’elasticità sufficiente per trovare in così poco tempo così tante donne da far diventare deputate».
Un paese in ginocchio
Il quadro che emerge è ora chiaro: da un lato un’opposizione frammentata, che ricopre un ruolo da sempre fittizio, e se possibile oggi ancora più debole, dall’altro una maggioranza che ha perso il suo legame con le masse (di nasseriana memoria), ed è divenuta sempre più macchina clientelare che, priva di ideologia, non solo non riesce più a indottrinare ma addirittura, paradossalmente, depoliticizza. Nel mezzo, una società al lastrico in un paese letteralmente in ginocchio, anche a causa della crisi mondiale: inflazione alimentare schizzata al 18,5 per cento (il principale alimento della dieta egiziana, il pane, è aumentato da gennaio di ben il 70 per cento), riduzione degli investimenti stranieri, netto calo delle rimesse dall’estero, riduzione delle entrate legate al canale di Suez, (da sempre tra le fonti primarie di reddito del paese).
Privata di qualsiasi potere economico, sempre più divisa tra una piccola élite straricca e una maggioranza sempre più povera, per nulla rappresentata dalla politica o dalle formazioni di categoria, la popolazione si barcamena come può. E non esita più a fare sentire la propria voce scendendo direttamente in piazza. Dopo le tante e arrabbiate manifestazioni per il pane – in cui qualche volta ci è scappato pure il morto – o le prime vincenti occupazioni di fabbrica datate addirittura fine 2004 (storica oramai quella di el Mahalla el Kubra, dove risiede la più grande struttura tessile del paese), le proteste sono diventate quasi un rituale quotidiano.
Che sempre più spesso ottiene concessioni immediate. Almeno fino a quando il regime e il raìs lo permetteranno, ovviamente.