La sveglia suona presto per andare sul Monte Sinai: alle 23:00. E’ appena sceso il freddo sulla spiaggia di Dahab e già il pulmino passa a prenderci per attraversare la penisola verso l’interno. Dopo un paio d’ore arriviamo ai piedi del monte, poco fuori dal Monastero di Santa Caterina. Lì ci uniamo ad un gruppetto di quattro russi e due etiopi e incontriamo una ragazzetto con una quefia in testa: sarà lui la nostra guida. Silenzioso, timido, giovanissimo, quasi un bimbo. Ogni notte sale e scende dal monte accompagnando i turisti che vogliono provare un’esperienza unica. Iniziamo la scalata. Fa molto freddo, siamo a oltre duemila metri sopra il livello del mare. Indosso due maglioni, un cappello di lana e una sciarpa che mi avvolge completamente. Le mani si raffreddano, così come il naso. Il buio avvolge tutto. La luna è solo uno spicchio, e non illumina. Solo qualche bagliore che si riflette sulle rocce erose dal vento. Camminiamo senza poter vedere dove mettiamo i piedi, lungo la strada dei cammelli, una lunghissima strada che sale lentamente circondando il monte. Un passo, l’altro passo. Scivolo, mi fermo. A volt manca il fiato. La cima non si vede. Ogni tanto una luce: vendono caffè e tè caldo. L’ultimo pezzo è il più faticoso. Con tre ore di scalata nelle gambe affrontiamo gli ultimi settecento gradini che separano dalla vetta. Arriviamo in cima che siamo ancora pochissimi, ma se mi affaccio vedo nella valle tante piccole luci: sono le torce degli altri turisti che salgono sul monte. Io e Mariachiara ci sistemiamo su una roccia riparandoci dal vento. Ci arrotoliamo nei sacchi a pelo coprendoci con coperte di lana di cammello che puzzano di mille utilizzi. Il cielo è ancora nero, e così, scaldandoci l’un l’altro, chiudiamo gli occhi per un po’. Li riapriamo che in lontananza inizia a salire la luce, preannunciando il sole. Attorno a noi il monte si è popolato di gente infreddolita proveniente da tutto il mondo. Come una novella babilonia la cima si muove lenta e in attesa, raccolta attorno alla moschea e alla chiesa che da centinaia di anni imperano sul monte dove, secondo la Bibbia, Mosè ricevette le tavole della legge (Mosè, come Gesù del resto, è considerato un profeta dell’Islam). Poi sempre più luce. Tanti colori, mille sfumature. Tutti in attesa. Poi ecco. Accolto da un grido soffocato. Il sole. Scattano le macchine fotografiche, ci si stringe con chi si ama. Un momento molto emozionante. Velocemente il sole sale e illumina tutto, di una luce calda che immediatamente fa sciogliere sciarpe e levare cappelli. Per la prima volta vediamo il paesaggio che avevamo attraversato nero e buio. Spettacolare. Scendiamo dall’altra strada: un ripidissimo sentiero che percorre uno wadi (un fiume secco) dritto fino al Monastero di Santa Caterina. Arriviamo al Monastero che sono quasi le nove. Visitiamo il monastero guardando le facce degli altri: tutti stanchi ma tutti felici. La chiesa copta è piena di fascino, ma gli occhi di tutti sono per il roveto ardente, quello che discende direttamente dalla pianta attraverso la quale si manifestò Dio a Mosè. Ritorniamo a Dahab addormentandoci sul pulmino, dopo una scalata nella notte che ricorderemo per sempre.