L’EGITTO CONTRO I MATRIMONI TURISTICI

Sazanne Mubarak

Anno nuovo, vita nuova: in Egitto parte proprio a gennaio il piano nazionale della durata di due anni per mettere un freno ai matrimoni delle minorenni e stoppare il fenomeno delle nozze “turistiche” o “stagionali”. Infatti sempre più frequentemente accade che ricchi sceicchi arabi del Golfo vadano in Egitto di proposito per legalizzare le loro unioni matrimoniali con ragazze povere e giovanissime.
Tanti sono i Paesi in cui è diffusa questa pratica, ma in Egitto è in continuo aumento: pensate che soltanto nel 2010 ci sono stati 242 matrimoni turistici.
Nel caso dell’Egitto accade che possidenti uomini arabi prendano in sposa una giovanissima donna egiziana con scarse possibilità economiche, a cui viene affidata una dote. Solo una volta giunta nel Paese del marito la donna viene a conoscenza dell’esistenza di altre mogli.

Il piano fa parte di una più ampia risoluzione sancita in seno al Forum internazionale sul traffico di esseri umani svoltosi nelle scorse settimane a Luxor con l’alto patrocinio di Suzanne Mubarak, moglie del presidente.
Tra le altre cose, in tempi recenti l’Assemblea del Popolo ha approvato un progetto di legge che penalizza il traffico di esseri umani e prevede pene da 7 anni di carcere in su per chi se ne rendesse responsabile.
La legge attualmente in vigore impone di fatto che una ragazza non possa sposarsi prima dei 18 anni e un ragazzo prima dei 21. Nonostante ciò l’Egitto è in testa fra i Paesi arabi dove è più diffuso il costume del matrimonio turistico, presente anche nel Golfo.

LA CONDIZIONE DELLA DONNA IN EGITTO

(Cairo) Hoda Gameel, 22 anni, è una delle tante donne egiziane spinte nel mondo del lavoro dal bisogno e dalle circostanze. Se in passato lasciare le mura domestiche può aver reso alcune donne libere, oggi le donne egiziane non ricevono la giusta considerazione e, al contrario, tornano a rifugiarsi nella tradizione.

“Ero ambiziosa e avevo sogni. Ora voglio solo sposarmi e stare in casa”, ha dichiarato Gameel. “La mia sola speranza è quella di potermi riposare, quando mi sposerò”.

Gameel si sveglia alle 7, prepara la colazione ai due fratelli minori, li accompagna a scuola, torna a casa a stirare e poi va al lavoro – vende foulard copricapo nello stand di uno sfarzoso centro commerciale. La sera, dopo aver affrontato 90 minuti di traversata nel traffico del Cairo su un autobus malridotto, cena, studia e finalmente riposa.

È una sfacchinata che frutta a malapena 100 dollari il mese, con tutti gli straordinari. Una storia tristemente ordinaria nei paesi dove la tradizione ancora priva la maggior parte delle donne di opportunità e l’unica possibilità sono lavori mal pagati e poco soddisfacenti.

Gameel ha il peso ma non i vantaggi dei suoi coetanei. “Mi sento un uomo. Gli uomini sono quelli che in teoria dovrebbero lottare e sostenere il peso della famiglia. Una donna dovrebbe invece offrire amore, affetto ed essere protetta. Non dovrebbe essere impegnata fuori casa tutto il tempo”.

La maggiore di quattro figli, al quarto anno di studi di ragioneria, Gameel ha dovuto rimboccarsi le maniche, quando il padre, operaio analfabeta, si è ritirato dal lavoro a 51 anni a causa di una grave forma di asma. Contemporaneamente, sua madre ha dovuto lasciare il posto nella fabbrica dove cuciva vestiti per meno di 50 dollari il mese perché troppo soprappeso.

Quando aveva 19 anni, Gameel lavorava come segretaria in una piccola compagnia che vende condizionatori d’aria. Il lavoro d’ufficio le piaceva e il suo salario era il doppio di quello attuale. Ma il suo capo era un po’ troppo premuroso, “continuava a far cadere cose di proposito perché mi chinassi per raccoglierle”. Quando Gameel si lamentò con i colleghi, la voce arrivò al capo che la licenziò.

Da una recente ricerca condotta dal Pew Research Center di Washington in collaborazione con l’International Herald Tribune è emerso che l’Egitto è uno dei paesi in cui le donne che lavorano sono maggiormente svantaggiate e i pari diritti sono un obiettivo più che una realtà. Il 61% degli intervistati ha detto che le donne dovrebbero poter lavorare fuori casa. Ma il 75% ha aggiunto che in tempi di scarsità di lavoro, gli uomini dovrebbero avere la precedenza.

L’Egitto è al 120° posto su 128 paesi in quanto a uguaglianza di genere secondo il Global Gender Gap Report del World Economic Forum, che mette l’accento sulla scarsa performance del paese in quanto a empowerment politico e opportunità economiche concrete per le donne. E le cose potrebbero peggiorare ulteriormente per le donne. Mentre il settore pubblico è stato tradizionalmente più ospitale nei confronti delle donne, l’apertura dell’economia al settore privato le sta penalizzando. Secondo il rapporto 2010 del Population Council, il tasso di disoccupazione tra le giovani tra i 15 e i 29 è al 32% circa, più del doppio del 12% tra i giovani della stessa fascia di età.

Le donne in Egitto occupano solo 8 dei 454 seggi del Parlamento e 5 parlamentari sono state nominate direttamente dal presidente. Ci sono solo 3 ministre e nessuna donna tra i 29 governatori.

Quando le donne hanno chiesto di diventare giudici del Consiglio di Stato, il tribunale amministrativo più alto, l’assemblea generale del Consiglio ha votato contro, argomentando che l’emotività e i doveri genitoriali delle donne non le renderebbero adatte a tale compito. La decisione è stata ribaltata a marzo in seguito al ricorso presentato alla corte costituzionale dal Primo Ministro Ahmed Nazif ma, di fatto, nessuna donna è entrata a far parte del Consiglio.

Analogamente, il Parlamento ha approvato lo scorso anno un testo di legge che riserva alle donne una quota di 64 seggi alla camera dei deputati nei prossimi due mandati quinquennali, a partire dalle prossime elezioni che si terranno in autunno.

Solo le donne influenti “possono permettersi delle ambizioni,” mentre la maggior parte delle donne appartiene alla classe medio-bassa. Inoltre, l’analfabetismo femminile rimane alto: il 47% delle donne rurali e il 23% di quelle urbane non sono in grado di leggere o scrivere.

La ragazza prosegue caparbiamente i suoi studi e frequenta corsi d’Inglese l’estate. Vuole un lavoro in banca, per l’orario (il lavoro finisce alle 2), un tipo di lavoro che vede come l’unica possibilità di avere una carriera dignitosa e un matrimonio felice.

“Lavoro come una macchina,” ha detto. “Non ci sono promozioni, lo stipendio non ha aumenti e non c’è pietà. Dov’è il senso di realizzazione in tutto ciò?”

Sono le 11:00, Gameel fa i conti della giornata, chiama il proprietario e chiude lo stand. Porta a casa okra surgelati che la madre cucinerà per cena. Si trascina sull’autobus. Guarda fuori del finestrino. E solo a metà del tragitto, finalmente dice: “Anche solo questo viaggio accidentato finirà con l’uccidermi”. (fonte: New York Times) (Tratto da http://www.deltanews.net)

UNA MAPPA SUL WEB PER DENUNCIARE GLI STUPRI IN EGITTO

Come accade in ogni buon grande media generalista, ci sono argomenti che passano spesso di moda per poi tornare alla ribalta dopo tempo, dopo soltanto avvenimenti eclatanti, che destano scalpore al momento per cadere subito dopo nel dimenticatoio, ma ciò non significa che non siano più all’ordine del giorno. Lo stesso accade per questioni delicate e importanti, come le violenze e gli stupri nei confronti delle donne, ma c’è chi cerca di tenere sempre alta l’attenzione dell’opinione pubblica, nella speranza di combattere questo abuso maschile nei confronti delle donne o anche dei gay e dei transessuali.

In Egitto, un gruppo di volontari ha dato il via ad un progetto che si basa sulla pubblicazione sul web di una mappa interattiva, Harass Map (http://harassmap.org/), dove vengono segnalati casi di abuso o di violenza, denunciati dalle vittime via sms.

Questo sistema, in uso già in molte città del mondo, darà voce e ascolto a chi subirà qualsiasi tipo di molestia: dallo stupro vero e proprio, allo stalking, alle molestie verbali e fisiche, e sulla mappa sarà riportato il luogo, l’ora e la descrizione dell’accaduto. Il servizio è collegato con la polizia locale e, su richiesta di chiunque, la mappa può essere inviata sul cellulare, così da poter informare le possibili vittime dei punti ‘caldi’ della città da evitare. “L’idea è di avere informazioni generate dagli utenti. – afferma Engy Ghozlan, uno dei volontari che partecipano al progetto – Il semplice fatto di non sentirsi sole, può aiutare tante donne indifese”.

velo_egitto.jpgIl Centro per i diritti delle donne egiziane (ECWR) ha pubblicato un’indagine nel 2008 secondo la quale circa l’83% delle donne egiziane e il 98% delle donne straniere presenti nel paese hanno subito una qualche forma di molestia e nel 62% di questi casi si è trattato di violenza sessuale.

Le teorie sulla causa di queste violenze sono varie e vanno dalla disoccupazione giovanile alla situazione economica povera e stagnante del paese, fino al crescente conservatorismo dei musulmani egiziani, che vorrebbero le donne relegate in casa, al di fuori della sfera pubblica. Il governo, nonostante le percentuali di stupri e molestie siano pubbliche da lungo tempo, tende a minimizzare, ad accusare i media di esagerare la questione e ad ammonire le donne di coprirsi di più.

Secondo il parere di Azza Suleiman, direttrice del Centro egiziano per l’assistenza legale alle donne, la Harass Map è uno strumento utile, ma c’è bisogno di molto tempo per poterne vedere gli effetti positivi. Purtroppo sono ancora tante le donne che con la tecnologia hanno molto poco a che fare e tante altre sono restie a dichiarare a terzi quanto gli accade, anche quotidianamente; “l’argomento è molto sensibile. La prima volta le donne non parlano, la seconda dicono qualcosa e la terza si aprono” afferma Suleiman.

di Maurizio Martone per Agenzia Radicale

COSI’ LE ISLAMICHE SFIDANO L’ESTREMISMO

INTERESSANTE ARTICOLO A FIRMA ROLLA SCOLARI APPARSO SU ILGIORNALE.IT DEL 3 AGOSTO 2010

Non occorre andare fino in Indonesia per trovare donne musulmane che sfidano le tradizioni. Succede anche in Italia, come spiega al Giornale Martino Pillitteri, coordinatore di Yalla Italia, inserto mensile del settimanale Vita Magazine e autore di Quando le musulmane preferiscono gli infedeli, (Mursia). Le figlie degli immigrati in Italia stanno rompendo molti tabù, gli stessi contro cui si è scontrato l’autore nei suoi due anni di vita al Cairo, raccontati in un libro che fotografa le difficoltà di una storia d’amore tra un cristiano e una musulmana. Lei è del Cairo, lui è di Milano. Si incontrano e si innamorano a New York. Lui fa le valigie e si ritrova catapultato da Manhattan alle polverose rive del Nilo, in vista di un matrimonio che prevede, nelle speranze della famiglia dell’amata, la sua conversione. Dopo la non facile full immersion nell’islam mediorientale, l’autore torna a Milano, dove incontra l’islam europeo, quello delle ragazze con il velo e l’accento lombardo: l’islam delle seconde generazioni.
Nell’Italia dell’immigrazione si parla molto di coppie miste. Amori impossibili?
«Molte giovani tunisine e marocchine mi contattano, raccontandomi le loro relazioni con italiani. Oggi, molte musulmane di seconda generazione non pretendono dai fidanzati la conversione, come vorrebbero i genitori. È un passo avanti: il Corano infatti non vieta i matrimoni misti».
Si va verso una generazione di donne islamiche più integrate?
«La massa critica di ragazze musulmane nate in Italia è in grande crescita, ma i fanatici ci sono e sono sempre più agguerriti».
Sei ottimista sul futuro dell’integrazione in Italia?
«In Egitto ero molto scettico sull’islam, vedevo una deriva integralista. Tornato qui, ho cambiato idea quando ho incontrato i figli e le figlie degli immigrati. Loro hanno rotto regole non scritte: l’uomo ha più importanza della donna; la prominenza del gruppo sul singolo; la legge degli anziani. Hanno infranto tabù. Credono nei matrimoni misti senza conversioni. Non è un islam etnico quello dell’immigrazione, ma vissuto nella sfera del personale».
Limitare la religione alla sfera del privato aiuta l’integrazione?
«La partita si gioca su come si comunica la religione nella sfera sociale. Questo è quello che ho visto al Cairo, dove gli imam hanno un copyright che tutti devono seguire. È un modo di dire: “Io faccio parte del vostro gruppo”. Ma qui, le seconde generazioni sono pronte a rischiare. È l’islam delle 2G contro l’islam delle 2C: le seconde generazioni contro gli imam commercialisti e commerciali. Molti imam, anche qui, sono diventati fiscalisti della fede. “Vuoi la salvezza eterna? Vestiti così e prega così”. Vendono il loro prodotto, ma le seconde generazioni non abboccano più».
E allora perché anche qui si diffonde il velo integrale?
«Veli, niqab, sono fenomeni passeggeri. L’islam ha la capacità di inserirsi nei vuoti economici, sociali, identitari, religiosi. È la sua forza».
Lavori con molte ragazze delle 2G. Cosa dicono del dibattito sul velo integrale?
«Le figlie di immigrati che conosco sono contro “i barbuti”, gli imam estremisti, come li chiamano loro, contro gli estremisti del velo integrale. Ma esiste uno zoccolo duro: giovani ricattate socialmente dai genitori, che vivono ancora in famiglia e per avere una vita tranquilla mantengono certe regole. Le 2G non sentono sulla loro pelle tutti i dibattiti che passano sui giornali, velo, poligamia eccetera. La loro preoccupazione è la cittadinanza. Il processo identitario si scontra con la burocrazia e subentra la frustrazione. Così si perde il processo di italianizzazione. Non è il velo a fare la differenza, è il non potere andare all’estero perché non hai il passaporto o non poter lavorare perché hai documenti in scadenza. Se l’islam fanatico si inserisce in tutti gli spazi vuoti, l’importante è creare un’alternativa e io credo nelle ragazze delle seconde generazioni. Occorre passare loro la palla».